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ITINERARI - SVILUPPO E PROGRESSO - IL SISTEMA FEUDALE

DALLA SCHIAVITŮ ALLA LIBERTÀ NON LIBERA

Il punto debole dell'economia schiavistica era l'assenza di adeguati meccanismi di autoriproduzione. Come si è visto, la principale fonte di approvvigionamento di schiavi era sempre stata e continuava ad essere la guerra. Quando, come avvenne nel I secolo d.C., l'espansione militare romana si arrestò e le frontiere dell'Impero si stabilizzarono, quando cioè a una lunga stagione di guerre e di conquiste successe un'altrettanto lunga stagione di pace, l'abbondante flusso di manodopera che aveva sostenuto nei secoli precedenti la crescita dell'economia schiavistica si ridusse bruscamente. Restava la possibilità di importare schiavi dall'esterno e in particolare dalla Germania, dove le guerre tribali continuavano a fornire abbondante materiale umano; ma rispetto alle necessità dell'Impero si trattava di ben poca cosa.
Quanto alla riproduzione naturale, tra la popolazione schiavile il tasso di fecondità era decisamente più basso che nella popolazione in generale. Catone il Censore (234-149 a.C.), autore, tra l'altro, di un trattato De agricoltura, aveva severamente vietato ai suoi schiavi di avere rapporti sessuali. Ai suoi tempi gli schiavi costavano così poco che non valeva la pena di addossarsi il costo dell'allevamento dei piccoli: l'infanticidio e le pratiche abortive erano la regola. Nel I secolo d.C., invece, quando il prezzo degli schiavi cominciava ad aumentare, Columella, un altro dei grandi scrittori latini di agricoltura, invitava i proprietari terrieri a favorire con premi e incentivi le gravidanze delle schiave.
La riproduzione naturale della popolazione schiavile trovava in ogni caso limiti precisi sia nello scarso numero di donne presenti tra gli schiavi rurali (le schiave erano prevalentemente impiegate nei servizi domestici), sia nell'impossibilità legale di una stabile organizzazione familiare. L'allevamento sistematico degli schiavi in apposite stazioni fu largamente praticato; non riuscì mai, però, a garantire una manodopera abbondante e a buon mercato come quella a cui i latifondisti romani erano stati abituati nell'età delle conquiste. Come l'importazione, l'allevamento degli schiavi poteva offrire un palliativo, non una vera soluzione al problema della scarsità di manodopera.
Di fronte al rarefarsi degli schiavi e al sensibile aumento del loro valore, si impose una politica di risparmio o per lo meno di contenimento degli sprechi. Nelle attività in cui il logorio della manodopera risultava eccessivo (come, ad esempio, le attività minerarie) si prese a sostituire gli schiavi con criminali condannati ai lavori forzati oppure con lavoratori liberi, a cui bisognava pagare un salario, ma che risultavano più economici degli schiavi se non altro perché la loro morte non significava per chi li impiegava una perdita di capitale.
Anche nei latifondi la tradizionale manodopera schiavile venne affiancata o sostituita da manodopera libera: da salariati, assunti per lo più stagionalmente, ma soprattutto da coloni, ossia contadini liberi a cui il padrone concedeva un fondo in cambio di una parte del prodotto (di solito la metà o un terzo) o di un canone in denaro e di saltuarie prestazioni di lavoro. Anche molti schiavi furono sistemati dal padrone su un podere con un ruolo del tutto simile a quello del colono. Il padrone ci guadagnava perché, mettendo in condizioni lo schiavo di procurarsi da solo i mezzi di sussistenza, risparmiava il costo del suo mantenimento e, senza rinunciare alla possibilità di usufruire della sua forza lavoro, otteneva una rendita sicura. Lo schiavo, da parte sua, acquistava una certa autonomia, poteva metter su famiglia, riusciva, se gli andava bene, ad accumulare qualche risparmio.
In questo modo, la condizione sociale degli schiavi veniva ad essere assimilata di fatto a quella, giuridicamente assai diversa, dei coloni liberi. In più, la sistemazione degli schiavi su un fondo individuale implicava l'abbandono almeno parziale del sistema del lavoro a squadre, che era l'organizzazione del lavoro caratteristica del latifondo a schiavi. Il latifondo stesso, diviso in poderi (non importa se affidati a coloni liberi o a schiavi), cambiava fisicamente aspetto. La villa non era più il centro operativo di una grande azienda condotta direttamente dal proprietario o dai suoi agenti, ma il nucleo intorno a cui ruotava un sistema di piccole aziende (i fondi colonici) unite soltanto dalla comune dipendenza dallo stesso proprietario: nel paesaggio le abitazioni delle famiglie coloniche, sparse o raggruppate in villaggi, prendevano il posto dei vecchi ergastoli. Erano tutti segni evidenti del progressivo deperimento del sistema schiavistico.
Questa evoluzione dell'economia agraria a base schiavistica fu accelerata da una grave e persistente crisi del sistema produttivo che, a partire dal III secolo d.C., si manifestò in una preoccupante diminuzione della superficie coltivata. Il fenomeno trova spiegazione in diversi fattori. È possibile, ad esempio, che gli abbandoni di terre fossero talvolta determinati dall'impoverimento del suolo (con conseguente diminuzione delle rese), dovuto a un eccessivo precedente sfruttamento e all'incuria di una manodopera rurale scarsamente motivata (come era senza dubbio quella schiavile); è anche possibile che qualche parte vi avessero fenomeni di degradazione ambientale (erosione, inaridimento, ecc.) causati da imprudenti disboscamenti o da analoghi errati interventi sul territorio. Entrambi questi processi, però, avevano carattere locale, mentre il fenomeno dello spopolamento era generale.
Più importante fu probabilmente la condizione di crescente insicurezza in cui vennero a trovarsi le regioni a ridosso della frontiera del Reno e del Danubio, a causa dei sempre più frequenti sconfinamenti dei popoli barbari e delle loro devastanti scorrerie all'interno dell'Impero. Come sappiamo, erano regioni ricche, intensamente colonizzate, che dovevano la loro prosperità proprio alla presenza di un'ingente forza militare: il loro declino non poteva non avere gravi ripercussioni nella vita economica del resto dell'Impero. Anche qui, tuttavia, si trattava di difficoltà a carattere essenzialmente locale. Il solo fattore sicuramente presente in ogni parte dell'Impero (e a cui i contemporanei attribuivano tutta la responsabilità della crisi) era la crescente pressione che l'organizzazione statale esercitava sui cittadini, a cui chiedeva sempre più tasse e da cui pretendeva prestazioni sempre più gravose nel servizio militare e in quello civile.
Nel III secolo ci si lamentava che ci fossero nell'Impero più esattori che contribuenti. Era una battuta, naturalmente, ma rappresentava con efficacia il sovraccarico che la popolazione doveva sopportare per il mantenimento della macchina statale. Il solo esercito romano dalla fine dell'età repubblicana aveva più che raddoppiato i suoi effettivi (che nel IV secolo sarebbero arrivati alla bella cifra di 650.000 uomini); la burocrazia gli aveva tenuto dietro, anche se a ritmi meno intensi.
L'esercito, che aveva sempre svolto un ruolo di primo piano nell'economia dell'Impero, era probabilmente la sola istituzione capace di tenere assieme l'organismo imperiale. Costantino pensò di averne trovata un'altra nella Chiesa cristiana. È difficile dire se politicamente il suo calcolo fosse giusto o sbagliato. Sta di fatto che economicamente l'appoggio della Chiesa costava un prezzo molto alto: il clero era assai più numeroso della burocrazia civile e godeva di retribuzioni migliori. Nel suo insieme l'apparato statale (esercito, burocrazia e clero) aveva finito per assorbire una quota esorbitante delle risorse disponibili rischiando di strozzare le attività produttive e cioè di inaridire le fonti di quella ricchezza su cui riposava la sua stessa efficienza: il governo, per usare una vecchia immagine, stava tirando il collo alla gallina dalle uova d'oro.
Non è difficile capire che cosa stesse avvenendo. Il forte prelievo fiscale riduceva in proporzione i margini di guadagno delle aziende agricole. Nelle aziende più deboli (che erano per lo più quelle dei piccoli affittuari, schiacciati tra l'esosità del fisco e quella del padrone, o quelle dei piccoli proprietari, che spesso non si trovavano in condizioni migliori) poteva annullarli del tutto rendendo assolutamente svantaggiosa la prosecuzione di una qualsiasi attività produttiva. In questi casi solo la costrizione poteva trattenere il contadino sulla terra.
In effetti, specialmente a partire da Diocleziano (c. 243-313 d.C.), lo Stato, che era ormai in mano ai militari, fece sempre più frequentemente ricorso a metodi coercitivi. I contadini furono censiti villaggio per villaggio e legati per legge alla loro terra d'origine:

e anche se per la loro condizione sembrano essere nati liberi - si legge in uno di questi provvedimenti di legge - siano ciononostante considerati come schiavi della terra stessa in cui sono nati, e non sia loro permesso di andarsene dove loro piaccia o di cambiare la loro residenza, ma il proprietario della terra possa esercitare il suo diritto su di loro con la sollecitudine di un patrono e il potere di un padrone di schiavi.

«Schiavi della terra», ossia (per dirla con un'espressione che torneremo ad usare per indicare la condizione prevalente tra i contadini dell'Europa medievale) «servi della gleba»: servus in latino è lo schiavo e gleba è la terra, il campo, il suolo agrario.
I coloni non erano dichiarati propriamente schiavi, perché non appartenevano legalmente a nessuno, ma non si potevano neppure più dire propriamente liberi, perché erano vincolati a una terra e quindi, indirettamente, al proprietario della terra (a cui del resto la legge riconosceva esplicitamente lo stesso potere di un padrone di schiavi). Erano coloni obbligati, semiliberi, liberi-non liberi, secondo una condizione non infrequente nei modi di produzione tradizionali dell'Egitto o della Mesopotamia, ma pressoché sconosciuta nelle regioni occidentali. D'altra parte la stessa necessità che aveva spinto a vincolare alla terra i contadini liberi portò ad estendere questo vincolo agli schiavi: chi vendeva un fondo doveva cedere insieme alla terra anche gli schiavi che vi aveva collocati come coloni. Con ciò la legge veniva a riconoscere che il vincolo che legava lo schiavo alla terra era più forte di quello che lo legava al padrone: era un altro modo in cui le opposte condizioni di liberi e schiavi venivano ad essere progressivamente assimilate.
Questa condizione di libertà-non libera non riguardava solo i contadini. Nelle città bottegai e artigiani si trovavano di fronte a difficoltà molto simili a quelle dei contadini e tendevano a risolverle allo stesso modo, ossia con la fuga. Gli imperatori-soldati del III e del IV secolo tentarono di frenare l'esodo dalle città costringendo ogni cittadino non solo a conservare la propria residenza e il proprio mestiere, ma anche a trasmetterli ai propri figli. Questo progetto di congelare l'intera società trasformando l'Impero in una sorta di caserma, in cui a ciascuno fosse assegnato ereditariamente un compito e a ogni mansione fosse attribuito una volta per tutte il personale necessario a svolgerla, era una tipica trovata da generali. Chiaramente inattuabile, ebbe ugualmente un altissimo costo in termini morali e civili, perché portò allo smarrimento, nella tradizione giuridica e nella coscienza della gente, della nozione di libertà.
I provvedimenti che vietavano ai lavoratori e in particolare ai contadini ogni mobilità, geografica o professionale, facevano naturalmente molto comodo ai proprietari terrieri, sempre alle prese con il problema della scarsità di manodopera. Ma perfino in larghi settori del ceto dirigente si avvertiva un diffuso disagio. A parte la fiscalità oppressiva, gli uffici decurionali erano diventati incarichi economicamente rovinosi a cui i cittadini delle classi medie cercavano di sottrarsi con qualsiasi mezzo, e per esempio (quando l'Impero divenne cristiano) abbracciando la professione ecclesiastica. In ogni caso, se espedienti di questo genere non funzionavano, c'era un metodo semplice e sbrigativo per sottrarsi ai servizi sgraditi: andarsene e far perdere definitivamente le proprie tracce. Era esattamente lo stesso metodo adottato dai contadini. Il che conferma come l'abbandono delle campagne non fosse che una particolare manifestazione di un fenomeno più generale, che interessava allo stesso modo gli ambienti rurali e quelli cittadini, le classi umili e le classi medie: la tendenza ad evadere gli obblighi (diventati insostenibili) inerenti alla condizione di contribuente e di cittadino. Come spesso accade, la militarizzazione dello Stato aveva fatto nascere un popolo di renitenti.
Per le classi alte e cioè per i grandi latifondisti, talvolta immensamente ricchi, che appartenevano all'ordine senatorio o equestre, non c'erano, s'intende, vincoli di sorta. Costoro erano esenti da imposte e servizi ed essi stessi erano responsabili o controllori dell'amministrazione imperiale: erano per definizione i potenti, i padroni dello Stato. Questa condizione li metteva in grado di esercitare un'efficace azione di protezione e di tutela privata (il cosiddetto «patronato») nei confronti di una vasta clientela di umili, altrimenti esposti alle angherie di esattori e funzionari pubblici. Non si trattava, ovviamente, di un'opera disinteressata. Molte comunità locali retribuivano regolarmente un patrono perché intercedesse per loro presso le autorità e gli erigevano statue.
Protetti e clienti riconoscevano nel patrono il capo, gli assicuravano obbedienza, diventavano suoi uomini: barattavano la sua protezione con la propria libertà. Quanto più estesa era la clientela di un potente, tanto maggiore diventava il suo potere. La potenza privata intimidisce e affascina gli umili: la paura indusse molti piccoli proprietari a cedere per donazione, testamento o vendita fittizia, le proprie terre al patrono per poi riaverle da lui, ma in concessione, e in qualità di suoi coloni vincolati. Così, anche legalmente, il cliente diventava servo. Pare che con questo sistema interi villaggi siano finiti inghiottiti nei latifondi dei potenti.
Patronato, colonato, servitù della gleba: la società del tardo Impero era tenuta assieme da una fitta rete di vincoli verso le cose (la terra, la professione, il luogo di residenza) e di obblighi verso le persone (dello schiavo verso il padrone, del cliente verso il patrono, dell'umile verso il potente) che nel complesso configurava una condizione pressoché generale di non-libertà. I soli davvero liberi erano i potenti, che però nelle province occidentali dell'Impero annoveravano appena qualche decina di famiglie e in quelle orientali qualche centinaio. Cicerone aveva vantato a suo tempo che i cittadini romani non erano servi di nessuno, all'infuori delle leggi. Nel tardo Impero, però, le leggi romane imponevano ai cittadini di farsi servi.

COLONO, MEZZADRO, PODERE

«Colono» è legato al latino colere che vuol dire «abitare» e «coltivare». In agricoltura il colono è un contadino legato a un fondo da un contratto, detto appunto di «colonia» (da non confondere con «colònia» che ha la stessa origine, ma che significa tutt'altra cosa) con il quale egli si impegna a lavorare e coltivare il fondo stesso e a dividerne i frutti in porzioni stabilite (da cui l'espressione di «colonìa parziaria») con il proprietario. Quando i prodotti e le spese di conduzione del fondo vengono divisi a metà tra il proprietario e il contadino, si parla di «mezzadria», un contratto agrario molto diffuso nell'Europa occidentale (e specialmente nell'Italia centrosettentrionale) a partire dal basso Medio Evo.
Il termine «fondo» (latino fundus = «base» o «fondo» di una cosa e quindi, per estensione, «suolo» e poi anche «terreno agricolo», «podere», «tenuta») indica un appezzamento di terreno coltivabile e gli annessi edifici rustici. Il «podere» è propriamente un fondo con casa colonica, ossia un fondo sul quale il colono abita. Etimologicamente «podere» viene dal latino volgare potere (latino classico: posse) che significa appunto «il potere», ma nel senso specifico del «possedere». Analogo è il significato di «tenuta», che sta a indicare una vasta estensione di terreno agricolo costituita da uno o più poderi, ma che anticamente era usato con valore generico come sostantivo di tenere: «il tenere», «l'avere» e dunque, ancora una volta, «il possesso»: si dice anche, infatti, «possedimento».

IL PESO DELLE TASSE

Sui coloni dell'età tardo-imperiale gravavano i canoni di affitto dovuti ai proprietari della terra, e sui proprietari gravavano le tasse per il mantenimento dell'esercito, della burocrazia imperiale e del clero cristiano. I canoni di affitto potevano arrivare alla metà del raccolto e ciononostante rischiavano di risultare poco remunerativi per i proprietari, perché i tributi dovuti allo Stato e alla Chiesa arrivavano al terzo o lo superavano. Così, non c'era da aspettarsi né che i padroni diminuissero i canoni, né che si dimostrassero comprensivi con i loro coloni al momento di esigerli. I coloni, insomma, dovevano ingegnarsi a sopravvivere con una metà circa del raccolto.
Non era un'impresa facile, se la terra non era di quella buona. Riprendendo il nostro modellino di azienda agricola possiamo tentare di fare grossolanamente un po' di conti in tasca ai nostri coloni e per esempio calcolare il rendimento minimo della semente che una famiglia colonica composta di dieci persone doveva sforzarsi di ottenere quando, tra canoni e imposte, era costretta a consegnare agli esattori del padrone, dell'imperatore e del vescovo la metà del raccolto (O = 0,5 x Q).
I parametri che attribuiamo al sistema sembrano ragionevolmente vicini (per quel poco che se ne sa) alle condizioni effettive dell'agricoltura mediterranea in questo periodo e ricordiamo che 3 quintali di frumento all'anno pro capite rappresentano il fabbisogno minimo ossia un livello di consumo a cui difficilmente ci si rassegna:

 a = 0,7
 l = 2 ettari per uomo
 d = 1,7 quintali per ettaro
 f = 3 quintali per anno

Se avete fano bene i conti e se considerate che all'epoca rendimenti della semente superiori a 4 non erano affatto frequenti, non vi stupirete del fatto che molti contadini, a cui erano state affidate terre scarsamente produttive (ossia con rendimenti inferiori a 4) cercassero di fuggirsene. Fate la controprova: calcolate l'indice di benessere (b) sulla base degli stessi parametri di prima, ma con un rendimento della semente pari a 3.






UN MONDO INSICURO

La tendenza allo spopolamento, almeno nella parte occidentale dell'Impero, che era quella economicamente più debole, continuò per parecchi secoli. A un certo punto, in Occidente, sotto la pressione dei popoli barbarici, la macchina militare romana e il corrispondente apparato amministrativo andarono in pezzi. È questo che si intende quando si parla di «caduta dell'impero romano». Le cosiddette «invasioni barbariche», che provocarono o affrettarono questa caduta, furono movimenti tutt'altro che repentini di popolazioni provenienti dal Nord e dall'est, precedute da infiltrazioni e stanziamenti pacifici. A quanto pare, si trattava di popolazioni poco numerose: duecentomila, forse, i Longobardi, centomila i Burgundi, ancora meno i Visigoti. Poca cosa rispetto alla popolazione delle province occidentali dell'Impero che, sebbene in diminuzione, contava pur sempre decine di milioni di persone. L'arrivo di queste popolazioni fu tuttavia sufficiente a determinare in tutta la regione, oltre che lo scompiglio dell'apparato statale, un collasso economico senza precedenti.
Questo arrivo fu di norma accompagnato da violenze d'ogni sorta: distruzioni, massacri, saccheggi, vandalismi (per usare una parola che richiama appunto quell'esperienza). La rete delle comunicazioni e degli scambi fu irrimediabilmente lacerata e il commercio diventò un'attività disagevole e pericolosa. Anche se il vecchio sistema stradale andò in rovina più per la mancata manutenzione che per le distruzioni provocate dai Barbari, l'insicurezza che regnava ovunque faceva del più pacifico dei trasferimenti un'avventura. Il Mediterraneo restò transitabile finché i Vandali, impadronitisi dell'Africa settentrionale non ne fecero una pericolosa area di guerra e di pirateria. Era la prima volta, dopo mezzo millennio di tranquille navigazioni, che questa fondamentale arteria marittima veniva interrotta.
Le città, già da tempo in declino, costituivano una preda allettante e furono prese particolarmente di mira dai Barbari. Assediate, distrutte, saccheggiate a più riprese, si spopolarono. Agli inizi del V secolo, prima cioè del sacco dei Visigoti e di quello dei Vandali, Roma aveva già perso un milione di abitanti: non ne contava infatti che duecentomila contro il milione-milione e mezzo del II secolo. Ma nei secoli successivi anche questi duecentomila si dispersero in gran parte: interi quartieri della città vennero abbandonati e gli altri si riempirono di orti e di rovine. In mancanza di dati demografici attendibili, la diminuzione delle aree urbane costituisce un buon indice dello spopolamento delle città: in Gallia, per esempio, Nimes passò da 220 ettari a 20, Bordeaux da 90 a 30, Lione da 163 a 113 e così via.
Non tutte le disgrazie che colpirono il mondo occidentale vanno attribuite alle violenze dei Barbari. Ci furono ad esempio delle epidemie devastanti, che sono eventi del tutto indipendenti dalla volontà umana (anche se in verità la loro propagazione fu sicuramente favorita dallo stato di disordine e di guerra e la loro virulenza accresciuta dalla povertà generale e dalla prostrazione fisica della popolazione). Ai danni direttamente prodotti dai Barbari invasori si aggiungevano spesso quelli, forse più gravi, provocati dal panico che il loro avvicinarsi suscitava nelle popolazioni e che inevitabilmente si dilatava nell'esodo in massa di migliaia di profughi affamati (e solitamente non meno violenti dei Barbari di fronte ai quali fuggivano).
Questa situazione di disordine, di insicurezza, di paura non aveva i caratteri di un'emergenza temporanea: doveva ripetersi (o protrarsi) per secoli. Lo stabilirsi di regni romano-germanici nelle diverse province dell'Occidente concesse qualche momento di riposo alla società europea. Finalmente un grande tentativo di restaurazione dell'ordine fu compiuto, tra VIII e IX secolo, con l'appoggio della Chiesa di Roma, dalla dinastia franca dei Carolingi: Carlo Magno e i suoi successori riuscirono a unificare in un solo impero tutta la Cristianità occidentale. Ma l'ordine non durò a lungo e una pace vera non vi fu mai.
Da oltre un secolo l'Europa sosteneva gli attacchi dell'Islam. Ai Musulmani si aggiunsero successivamente i Normanni, che presero ad attaccarla da Nord, e gli Ungari, che l'assalivano da Oriente. Musulmani e Normanni dominavano i mari, terrorizzando le regioni costiere, e risalivano agevolmente con le loro imbarcazioni i fiumi, terrorizzando quelle interne. Gli Ungari spingevano le loro scorrerie fino al cuore dell'Europa. La violenza era più che mai presente: era, anzi, onnipresente, e i sovrani carolingi persero progressivamente il controllo della situazione. A un sistema di difesa coordinato dal centro, come era quello che avevano cercato di costruire, si sostituì alla fine un sistema di autodifesa decentrata, affidata cioè all'iniziativa dei potentati locali. È in questo momento che venne delineandosi nelle sue strutture fondamentali quello che chiameremo «il sistema feudale».

IL FEUDO

Alla base del sistema feudale c'era una realtà giuridica e umana che conosciamo già molto bene: la dipendenza di un uomo da un altro uomo. A differenza, però, della società tardo antica, nella quale la condizione di dipendenza, per quanto diffusa, era avvertita come incompatibile con la libertà, nella società feudale, anche per influsso di tradizioni barbariche, al vincolo della dipendenza personale, addirittura più forte del vincolo di sangue o di quello dell'amicizia, si era finito per riconoscere un significato morale altissimo: il rapporto tra vassallo e signore, con i suoi valori di fedeltà, lealtà, benevolenza (e con le sue vicende di tradimenti, vendette, crudeltà), era l'essenza dell'esperienza aristocratica.
Il «vassallo» (la parola aveva in origine proprio il valore di «servo») era tenuto a servire (aiutare, affiancare) il «signore» (dal latino senior = «il più vecchio») nell'esercizio delle sue funzioni, che erano essenzialmente quelle di capo militare e di giudice di quanti erano affidati alla sua tutela: così, i vassalli erano i suoi compagni in guerra e i suoi coadiutori nel governo. Il signore a sua volta era tenuto a proteggere il vassallo, a mantenerlo e a compensarlo in proporzione ai servizi ricevuti. «Feudo» (una parola d'origine franca, che aveva pressappoco il valore del latino pecunia) era la retribuzione del vassallo, consistente nella concessione di terre e di uomini con cui il signore compensava i suoi servizi.
Il sovrano era il primo signore del regno; ma i suoi vassalli, ossia i nobili del suo seguito, avevano a loro volta un seguito di vassalli, e questi ancora altri vassalli, in una lunga catena di rapporti di dipendenza, che abbracciava da un capo all'altro tutta la società e nella quale ogni uomo era di volta in volta vassallo di un signore e signore di altri uomini. Ad eccezione, si capisce, dell'ultimo anello della catena, il contadino-servo, che era solo vassallo e mai signore. Anche lui comunque prestava al signore un servizio in cambio della terra ricevuta in concessione: la logica della dipendenza era identica al vertice come al fondo della scala sociale. Senonché il servizio del contadino non aveva niente di nobile. Era, anzi, quello tradizionale dello schiavo, ignobile per definizione: lavorare per la soddisfazione dei bisogni altrui.
Nel disgregarsi dell'autorità centrale dei sovrani carolingi, ufficiali e vassalli del re, vescovi, monasteri, grandi proprietari terrieri ne raccolsero (o ne usurparono) localmente i poteri, sostituendosi ad essa nell'amministrazione della giustizia, nell'imposizione di tributi e, soprattutto, nell'organizzazione della guerra: per la nuova classe di potenti, i signori feudali, l'esercizio delle armi era, infatti, la funzione di gran lunga preminente su tutte altre, quella che aveva reso possibile l'usurpazione dei poteri sovrani e insieme la giustificava in nome delle esigenze di difesa della popolazione.
Anche le forme dell'insediamento furono condizionate da questa riorganizzazione su base locale e guerriera della vita civile. Le città, anche se difese da mura, erano troppo esposte agli attacchi e in caso di emergenza risultavano difficili da approvvigionare. Così, senza mai sparire del tutto, almeno come sedi di autorità militari e ecclesiastiche, esse continuarono a perdere abitanti a favore dei villaggi, i quali dal canto loro si fortificarono, o si spostarono in località naturalmente protette dagli attacchi nemici, o si addossarono ai castelli che già le autorità carolingie avevano cominciato ad erigere un po' dovunque e di cui i signori feudali finirono col riempire le campagne.
Anche molti monasteri, talvolta dopo essere stati costretti a mutare più volte sede, si stabilirono in zone impervie o difficilmente accessibili e non mancarono di dotarsi di solide opere di difesa. Le grandi aziende agricole, le ville o «corti» (come anche erano chiamate), si fortificarono anch'esse e soprattutto si attrezzarono per diventare delle cellule di organizzazione sociale ed economica pressoché autosufficienti. Anche se la circolazione delle merci e soprattutto degli uomini non cessò mai del tutto, le comunicazioni erano più che mai incerte e difficili, e in una situazione caratterizzata da una persistente insicurezza e da un almeno relativo isolamento, l'autosufficienza, cioè la capacità di produrre tutti i beni di prima necessità, dal cibo ai vestiti, alle armi, agli strumenti di lavoro, era una condizione indispensabile alla sopravvivenza.
Il nome «corte» viene dalla grande corte intorno a cui sorgevano, oltre alla residenza-fortezza del proprietario (la torre o castello), una serie di edifici d'uso comune come magazzini, stalle, forni, officine e gli alloggi dei servi degli artigiani, che provvedevano alla fabbricazione e alla manutenzione delle armi, degli strumenti di lavoro e degli oggetti d'uso per il fabbisogno della corte e della popolazione dipendente. Dal punto di vista produttivo ogni corte o villa era costituita, secondo il modello più frequente, da due parti fra loro complementari: l'una, detta appunto pars dominica (cioè la parte del dominus, signore e padrone), o, come diremo più spesso, «riserva signorile», era gestita in «conduzione diretta» dal signore; l'altra, detta pars massaricia (o parte colonica), costituita dai poderi, o «mansi», dei contadini dipendenti.
I contadini concessionari dei mansi erano soggetti, in cambio della terra, al pagamento di canoni in natura (polli, uova, bestiame minuto, una parte del raccolto, ecc.) e a prestazioni di lavoro (corvées) più o meno gravose a seconda delle consuetudini locali, dei patti tradizionalmente accordati a ciascuna famiglia, delle condizioni giuridiche (schiavo o libero) ed economiche (con o senza aratro e relativi buoi da tiro) del singolo contadino.
La vita del contadino, come si può facilmente immaginare, era molto misera. Il signore, che si appropriava di parte del suo raccolto e di parte del suo tempo di lavoro, aveva un potere pressoché assoluto su di lui. La stessa facoltà di coltivare il pezzo di terra assegnatogli era più un dovere che un diritto: il contadino che era nato su un fondo non poteva abbandonarlo senza l'autorizzazione del signore e continuava, dai provvedimenti restrittivi del tardo Impero, mai abrogati, ad essere giuridicamente legato alla terra, servo della gleba.
Ma in cambio della sua libertà e del suo lavoro il contadino riceveva dal signore una certa protezione contro i nemici esterni. La stessa servitù della gleba aveva degli aspetti positivi: il contadino sapeva di non poter abbandonare la terra affidatagli, ma sapeva pure che nessuno lo avrebbe cacciato di casa. Ciò spiega almeno in parte perché molti contadini liberi (come già era accaduto nel tardo Impero, quando i nemici da cui i contadini dovevano difendersi erano i funzionari pubblici e gli esattori delle tasse) rinunciassero spontaneamente alla libertà e si ponessero alle dipendenze di un signore. La servitù era una dura condizione, ma rappresentava il massimo di sicurezza che la società del tempo era in grado di offrire alla povera gente.
E ciò spiega anche perché, mentre le campagne più esposte si spopolavano e l'Europa si copriva di foreste o di paludi, le isole coltivate ed abitate (i villaggi, appunto, dipendenti e difesi da uno o da più signori feudali) risultassero presto sovraffollate: in origine il termine «manso» stava a indicare l'appezzamento di terra ritenuto sufficiente (e necessario) ad una famiglia contadina; con l'andare del tempo, su uno stesso manso finirono per convivere due, tre, quattro famiglie. Il villaggio era un ridotto dove la presenza umana, a partire dalla massima densità dell'abitato e passando prima per gli orti (addossati alle capanne e intensamente coltivati) e poi per i campi a cereali (dove una larga porzione di terra era costantemente tenuta a maggese), si perdeva gradualmente nell'incolto, che nelle aree più vicine al villaggio era ancora saltuariamente utilizzato per il pascolo o per le attività di caccia e raccolta, ma che poi si faceva sempre più deserto e ostile.
Castello feudale

Ricostruzione virtuale delle fasi di evoluzione di un castello

Volo virtuale e sezione interattiva del castello di Federico II a Castel del Monte


CORTE, MANSO

«Corte» viene dal latino medievale curtis (da cui l'espressione «sistema curtense» per indicare il modello di produzione della signoria rurale) che a sua volta deriva da cors (genitivo: cortis), forma contratta di cohors = «cortile, orto, recinto». Cohors significava anche «sezione di un accampamento militare» e quindi «coorte», un reparto pari a un decimo di tutti gli effettivi della legione. La curtis, come cellula elementare dell'economia agraria medievale richiama dunque l'immagine di uno spazio chiuso da edifici (sul modello della villa romana) e circondato da mura, fortificato, come era di solito nel Medio Evo.

Il «manso» (latino medievale: mansum) era un appezzamento di terreno grande quanto basta perché una famiglia colonica potesse lavorarlo traendone il necessario per vivere. La parola (che ha una variante in «maso» che vuol dire ugualmente podere) viene dal latino manere = «stare, rimanere» come «magione» che indica l'abitazione signorile, e come «mansione» che significava originariamente un luogo di sosta e poi ha finito con l'indicare il «posto» del funzionario e infine la sua funzione.

SERVI E SIGNORI

Torniamo al nostro gioco. In un monastero vivono 12 monaci, il cui consumo annuo ammonta a 7 quintali di frumento pro capite. Le rendite del monastero sono costituite esclusivamente da canoni e decime raccolte da diversi mansi dipendenti dal monastero, di dimensioni più o meno uguali e affidati ad altrettante famiglie contadine. Complessivamente canoni e decime costituiscono per le aziende contadine un onere (O) pari al 25 per cento del prodotto (Q). I parametri produttivi sono:

 a = 0,6
 d = 1,2 quintali per ettaro
 r = 3,5

Tenendo presente che il fabbisogno minimo pro capite (f) è pari a 3 quintali di frumento all'anno, quanti contadini (L) dovranno lavorare per mantenere un monaco?
A quanto ammonterà complessivamente la popolazione (P) dipendente dal monastero?
Nel villaggio si pratica la rotazione biennale (m = 0,5): quale sarà la superficie complessiva (TD) dei mansi dipendenti dal monastero?
Quali sono i valori medi della produttivi dei lavoro (qL) e della produttività della terra (qT)?

L'ETÀ DEI DISSODAMENTI

A partire dalla prima metà del secolo XI, dopo il lungo periodo di disordine e d'insicurezza che chiamiamo «Alto Medio Evo», l'Europa dette chiari segni di ripresa. La svolta era in parte dovuta all'allentarsi della pressione esterna: tra il X e l'XI secolo i Normanni e gli Ungari erano stati assimilati alla società europea, mentre gli Arabi potevano essere affrontati ormai su un piede di parità. Ma anche più importante era il fatto che il lungo e travagliato processo di riorganizzazione della società europea, avviato dopo il crollo dell'Impero d'Occidente e soprattutto dopo il fallimento della restaurazione carolingia, si era ormai concluso dando vita ad nuovo ed efficiente sistema produttivo: il sistema feudale.
Il segno più evidente della ripresa economica dell'Europa fu il forte aumento della popolazione che si verificò tra l'XI e il XIV secolo. Secondo calcoli attendibili, la popolazione europea sarebbe passata nell'arco di tre secoli da circa 45 a più di 70 milioni di abitanti. Si trattava di decine di milioni di persone in più da sfamare, da vestire, da alloggiare. D'altra parte, la più importante risorsa economica del tempo, la forza lavoro, che a partire dal tardo Impero era diventata sempre più scarsa, con l'aumento della popolazione tornava ad essere relativamente abbondante, stimolando energicamente la produzione.
A quanto pare, l'aumento della produzione fu più che proporzionale all'aumento della popolazione e permise non solo di alimentare un maggiore numero di persone, ma anche (almeno in un primo momento) di migliorarne sensibilmente la dieta. Un nutrimento più abbondante e più vario assicurava una maggiore resistenza alla fatica e maggiori capacità di difesa contro le malattie: da un lato, dunque, esso contribuiva ad aumentare la produttività del lavoro (e perciò, in ultima analisi, a garantire una più ampia disponibilità di beni) e dall'altro a rendere meno frequenti e disastrose le epidemie (e cioè a consolidare la crescita demografica).
La componente più vistosa dell'espansione produttiva nei primi secoli del basso Medio Evo fu il progressivo allargamento dell'area coltivata mediante dissodamenti, bonifiche, disboscamenti. Nell'Europa occidentale, ossia nelle regioni che già erano appartenute all'antico impero romano, questo processo si espresse nel recupero di quei terreni che, con la dissoluzione dell'organismo imperiale e del suo sistema economico, erano stati abbandonati dai contadini perché meno produttivi o perché situati in aree troppo insicure, ed erano stati invasi dalle paludi o dalle selve. Nell'Europa centrale, a oriente e a Nord degli antichi confini dell'Impero, dove l'insediamento agricolo era sempre stato piuttosto rado, essa significò il dissodamento e la colonizzazione di terre a spese della foresta.
Anche se il fenomeno ebbe tempi e modalità diverse nelle diverse regioni europee, l'età dei grandi dissodamenti si colloca essenzialmente tra l'XI e il XIII secolo quando, in una situazione di relativa stabilità politica, venne praticamente completata la colonizzazione interna dell'Europa. Nel XIII secolo pare che la superficie coltivata abbia raggiunto in Europa la sua massima estensione. Nei secoli successivi ci sono state altre esperienze di colonizzazione agricola, ma quasi sempre hanno riguardato terre già dissodate nel basso Medio Evo e poi abbandonate. In effetti in quegli anni il fenomeno dei dissodamenti, il cui motore principale era il desiderio dei contadini di trovare una qualsiasi fonte, per quanto povera, di sussistenza, aveva finito con l'investire per una sorta di inerzia anche terre assolutamente marginali, poco produttive, dove si rischiava di non raccogliere la semente che vi si gettava e che fu poi necessario restituire alle utilizzazioni tradizionali: il pascolo, la caccia, la raccolta.
L'area cruciale di questo lungo processo di espansione delle colture fu la Germania e in particolare la Germania orientale dove, oltre alla colonizzazione interna, si sviluppò un intenso movimento migratorio verso le regioni abitate dagli Slavi. Per certi aspetti questa «marcia verso est» (come fu chiamata) ricorda l'analoga migrazione che, nel secolo scorso, si diresse verso l'Ovest degli Stati Uniti e che si concluse con la spoliazione dei pellerossa. La «frontiera» dei coloni tedeschi si spostò a ondate successive sempre più a est, in un movimento che aveva motivazioni politiche e religiose oltre che economiche e nel quale colonizzazione agricola e conquista militare si confondevano. Qualcosa di simile avveniva più o meno nello stesso tempo all'altro capo dell'Europa, nella cosiddetta Reconquista cristiana della Spagna musulmana.
In questa generale espansione dell'agricoltura europea la fame di terre di una popolazione contadina in fase di rapida crescita si era incontrata con l'evidente interesse dei signori laici ed ecclesiastici a promuovere insediamenti agricoli nei territori da loro dipendenti: il più intenso sfruttamento di terre incolte prometteva più ampie rendite e soprattutto un aumento di prestigio e di potenza proporzionale al numero dei nuovi sudditi. Alcuni ordini monastici di recente formazione, poi, come i Cistercensi, non solo portarono un diretto contributo all'opera di colonizzazione, ma diedero un'impronta religiosa al movimento che spingeva la gente ad uscire dai ridotti ormai sovraffollati in cui nell'alto Medio Evo si era rifugiata: la ricerca di isolamento, conforme all'ideale della vita monastica, coincideva perfettamente con l'opportunità economica di mettere in valore terre scarsamente o per nulla utilizzate perché site in località remote o disagevoli.
L'agricoltura fu il settore più direttamente interessato alla crescita economica del basso Medio Evo, ma non il solo: il suo sviluppo determinò un parallelo sviluppo delle attività commerciali e di quelle artigianali. L'aumento della produzione agricola, infatti, consentiva di nuovo la formazione di eccedenze che potevano essere vendute o scambiate con altri prodotti: il commercio, a breve e a lungo raggio, poteva così riprendere lena, favorito anche dalla maggiore sicurezza delle strade. D'altra parte nelle campagne, proprio in conseguenza dell'aumento della popolazione, cresceva la richiesta di manufatti come stoffe, attrezzi agricoli, armi, ecc. In gran parte le popolazioni rurali continuarono a produrre da sé questi articoli; gli artigiani delle città dovevano però acquistare un'importanza crescente almeno nel settore dei prodotti di maggior valore e di più difficile fattura destinati al consumo delle corti signorili.
Con la ripresa del commercio e della produzione artigiana, le città, che nei secoli precedenti si erano spopolate e talvolta erano scomparse del tutto, riacquistarono il loro antico ruolo di centri di organizzazione, di produzione e di scambio al servizio delle campagne. A questo ruolo esse aggiunsero però un'ambizione (del tutto nuova rispetto all'antichità classica) ad esercitare sulle campagne un controllo politico ed economico che molto presto si sarebbe trasformata in una vera e propria politica di conquista. Il fatto è che, mentre nel mondo antico il ceto dirigente cittadino coincideva con quello dei proprietari terrieri, nell'Europa medievale chi comandava in città non solo non si identificava con i signori feudali, ma si trovava in più o meno dichiarata concorrenza con il potere che costoro esercitavano nelle campagne.
Complessivamente, nei primi secoli del basso Medio Evo, il panorama dell'Europa risultava notevolmente mutato rispetto a quello dei secoli precedenti. Certo, le condizioni della grande massa della popolazione restavano generalmente misere; è possibile che in qualche caso, come spesso avviene quando c'è una forte pressione demografica (quando cioè la popolazione cresce a ritmi molto sostenuti), sia addirittura peggiorata, ma la guerra, la fame e le epidemie non erano più, come un tempo, una minaccia permanente. L'Europa restava una grande regione agricola e il sistema feudale, che si fondava sul possesso della terra e sulla sottomissione degli uomini che ad essa erano legati, risultava non solo confermato, ma rafforzato. La società europea stava però acquistando un'articolazione più ricca con il riemergere di una prorompente vita cittadina, di cui erano protagonisti uomini del tutto estranei o apertamente ostili al mondo delle campagne feudali.

L'ESTENSIONE DEL PODERE

Un signore decide di dividere una vasta estensione di terra in suo possesso in diversi poderi da affidare ad altrettante famiglie contadine in cambio di corvées. Le corvées dovranno incidere per un terzo sulla forza lavoro (L) complessivamente disponibile: in altre parole, ogni famiglia potrà dedicare solo due terzi del proprio tempo di lavoro alla coltivazione del proprio fondo e dovrà riservare l'altro terzo al servizio del padrone. Si suppone che le famiglie a cui i poderi saranno affidati siano composte in media di dieci persone. Il problema per il signore è di sapere quale dovrà essere l'estensione minima di ogni podere, tenuto conto che al solito, il fabbisogno minimo pro capite dei contadini dipendenti è calcolato intorno ai tre quintali di frumento all'anno (f = 3), che il sistema di rotazione prevalente è quello biennale (m = 0,5), e che gli altri parametri, quali si riscontrano in altre aziende dello stesso tipo, sono:

 a = 0,6
 d = 1,2 quintali per ettaro
 r = 4






IL MONDO DELLA FORESTA

La regione che occupa il centro del continente europeo, iniziando approssimativamente dal Massiccio Centrale francese e spingendosi, a Nord delle Alpi e dei Carpazi, sino al margine del tavolato russo, presenta caratteristiche ambientali abbastanza uniformi. Agli inizi del Medio Evo questa regione era un vero e proprio «mondo della foresta», decisamente contrastante con le terre mediterranee con le quali confinava. L'espansione romana si era arrestata ai margini di questo mondo ed è solo con l'età medievale che esso entrò definitivamente nella storia della civiltà occidentale.
Catene e massicci montuosi, altipiani, vere e proprie pianure solcate da grandi fiumi: l'Europa centrale presenta un paesaggio geologico estremamente variato. Ma anche nella varietà del rilievo è presente un po' dovunque un elemento unificatore: le glaciazioni quaternarie hanno modellato il paesaggio della regione. L'uniformità ambientale nasce però soprattutto dalla costanza delle caratteristiche climatiche e idrologiche. Le piogge hanno un tipico andamento stagionale: le più abbondanti si registrano d'estate mentre gli inverni trascorrono secchi con importanti precipitazioni nevose. La stagione più calda corrisponde dunque al periodo di piena dei corsi d'acqua mentre il periodo di magra coincide con la stagione invernale. Un aspetto tipico del clima continentale è il periodo di gelo invernale che produce il congelamento delle acque fluviali e lacustri per parecchie settimane all'anno.
I ghiacciai quaternari hanno sparso su gran parte della regione centro-europea un'argilla caratteristica, ciottolosa, non troppo compatta né troppo impermeabile, a volte in depositi più fini dovuti alla sedimentazione delle acque diluviali interglaciali o all'accumulo provocato dal vento (la loro origine è molto discussa) che si chiama loess. Sul loess o direttamente sulla roccia madre si forma un tipo di terreno caratteristico dell'ambiente medio-europeo ricco di humus, di colore scuro che è noto come «suolo bruno forestale». Questo tipo di substrato è particolarmente adatto alla coltivazione dei cereali.
L'ecosistema tipico che si instaura in questo ambiente e che condiziona la formazione del terreno stesso è la foresta di latifoglie. In realtà oggi nell'Europa centrale la quasi totalità degli ecosistemi forestali originari è sparita, ma il faggeto ed il querceto di pianura sono ancora un elemento caratteristico del paesaggio. Sui rilievi ed ai margini settentrionali dell'area continentale alla foresta di latifoglie si sostituisce quella di aghifoglie. Le popolazioni celtiche e germaniche che abitavano la foresta al tempo della conquista romana furono ricacciate all'interno di queste aree occupate dalle aghifoglie, che nella loro povertà ed inaccessibilità fisica costituivano una specie di isole conservando intatte per lungo tempo le caratteristiche originali. Si è notato che molti dei confini fortificati romani, costituiti da lunghe muraglie e terrapieni, correvano assai prossimi alla linea di separazione tra la foresta di latifoglie e quella di aghifoglie. La foresta di latifoglie fu dunque colonizzata ad opera dei conquistatori romani, che vi introdussero con successo alcune colture legnose, soprattutto castagno e vite. Ma per i popoli germanici la foresta aveva pari se non maggiore importanza delle coltivazioni con cui i conquistatori la sostituivano. La foresta era e rimase per lungo tempo un ricco territorio nutritizio, fornitore di cibo: ancora nell'alto Medio Evo, quand'era in gran parte intatta, le sue popolazioni vegetali ed animali costituivano un alimento diretto per gli uomini e per le loro greggi.
Una delle risorse primarie della foresta era la selvaggina: gli erbivori (cervi, cinghiali), i roditori (lepri, conigli) ed i carnivori (orsi) insieme con la numerosissime popolazioni di volatili costituivano una notevole fonte di sostanze proteiche. Ma anche la vegetazione poteva essere consumata dall'uomo; certi frutti del sottobosco erbaceo (ad esempio le fragole, i lamponi, i mirtilli) sono ancora oggi molto ricercati. In più dalla foresta con la semplice «raccolta» si ricavava il miele, la sostanza dolcificante più importante in Europa sino al XVII secolo, quando entrò nell'uso corrente lo zucchero. La foresta nutriva con le sue ghiande vasti branchi di suini e con l'erba del sottobosco numerosi greggi di ovini. Infine essa forniva il legno, che era il fondamentale materiale da costruzione del tempo e praticamente il solo combustibile allora usato.
Lentamente, sotto la spinta demografica o di nuovi tipi di economia, si cominciò nel Medio Evo ad erodere la foresta ai suoi margini. Nel VII-VIII secolo iniziarono i disboscamenti che tendevano a sostituire la foresta con campi coltivati a cereali. Ma fu un'operazione lenta che non intaccò gli equilibri ecologici del sistema forestale. Da occidente muovendo verso oriente, i coloni tedeschi con la loro fame di grano penetrarono nelle selve polacche e boeme solo nel XIV-XV secolo. Sparirono querce, faggi, frassini, betulle, mentre rimasero più a lungo intatte le isole forestali di aghifoglie di cui ancora oggi qualcuna sopravvive (la Foresta Nera, per esempio).
L'ambiente forestale ha influenzato direttamente i tipi di insediamento. In Germania, per esempio, i cosiddetti "villaggi delle foreste" avevano una forma caratteristica: lungo l'unica strada sorgevano le case; i campi erano disposti perpendicolarmente alla direzione della strada e si allungavano verso la foresta man mano che il disboscamento avanzava.
Panorama della Foresta Nera

Lo sviluppo dell'agricoltura mise in crisi l'antica economia forestale di raccolta e di pastorizia (e qualche conseguenza si ripercosse certamente sull'alimentazione delle classi popolari, che nei secoli dell'alto Medio Evo, per l'espansione delle attività connesse all'allevamento e alla caccia, si era arricchita di proteine di origine animale e che ora tornò a basarsi esclusivamente o quasi sui cereali). Alla fine del Medio Evo, tuttavia, la foresta, almeno nell'Europa centrale, presentava ancora vaste aree intatte. Era una riserva di energia biologica ed economica che fu sfruttata in maniera brutale solo con il sorgere delle prime attività industriali alle soglie dell'età moderna.

UNA RIVOLUZIONE SILENZIOSA

Oltre che all'espansione delle superfici coltivate, l'aumento della produzione agricola era dovuto anche (e in certi settori soprattutto) all'aumento della produttività: la terra rendeva di più, e rendeva di più il lavoro dell'uomo. Questo incremento di produttività (che interessava non solo le attività agricole, ma anche quelle manifatturiere) era la conseguenza di una serie di innovazioni che erano state introdotte in Europa proprio nell'età più buia della sua storia, tra il VI e l'XI secolo d.C.
Messi a confronto con gli otto o dieci secoli che li avevano preceduti (ossia con l'età classica, caratterizzata da una splendida civiltà, ma anche, come sappiamo, da una sostanziale stasi tecnologica) questi secoli «bui» appaiono dotati di una straordinaria dinamicità. Si è parlato per loro di «silenziosa rivoluzione»: «rivoluzione» perché il processo di innovazione avviato in quel periodo ha finito con il dotare la società feudale di un'attrezzatura assai più efficiente di quella di cui aveva potuto disporre la società antica; e «silenziosa» perché questa trasformazione si era operata in quella sorta di sottosuolo sociale che era rappresentato dalle masse anonime, illetterate e asservite degli artigiani e dei contadini.
Innovazione non vuol dire invenzione. L'invenzione è l'escogitazione di qualcosa di assolutamente nuovo (un oggetto, un dispositivo meccanico, un certo modo di fare le cose) la cui concezione è frutto cosciente e deliberato dell'ingegno e dell'immaginazione di qualcuno (l'inventore). L'innovazione è invece l'adozione di questo qualcosa nella pratica quotidiana e soprattutto nell'attività produttiva. Un'invenzione può essere assolutamente geniale, ma non funzionare affatto alla prima. Un'innovazione, invece, è tale per definizione solo se funziona. Così, l'innovazione tecnica costituisce la verifica decisiva della bontà di un'invenzione. Questa verifica richiede una quantità di piccole modifiche suggerite dall'esperienza e spesso perché un'invenzione abbia successo (si traduca cioè in un'effettiva innovazione) occorre un tempo molto lungo. Qualche volta (ed è quello che è successo con una quantità di congegni progettati dagli ingegneri della scuola di Alessandria) l'invenzione è buona, funziona, ma non interessa nessuno e allora resta lì, inutilizzata, magari per secoli, fino a che non si presenta l'occasione opportuna per la sua applicazione.
Per l'Alto Medio Evo (a differenza dell'età classica) non abbiamo notizie di invenzioni o di inventori. Quanto alle innovazioni di quel periodo, esse riguardavano per lo più strumenti e metodi di lavoro noti da tempo, ma scarsamente utilizzati. Ciò non diminuisce affatto la loro importanza. Con «innovazione» non si intende solo l'applicazione di una nuova invenzione, ma anche la generalizzazione o la diffusione di una tecnica già conosciuta e sperimentata, ma confinata in ambienti ristretti o adottata in circostanze e a scopi particolari. È il caso dell'apparato forse più caratteristico di quella che abbiamo chiamato la «silenziosa rivoluzione» dell'Alto Medio Evo: la ruota idraulica, che, vecchia di secoli, aspettò la fine di questa età per diffondersi ovunque adattandosi lentamente alle più diverse lavorazioni. Ma è il caso, anche, delle principali tecniche agricole, dall'avvicendamento delle colture alla concimazione del terreno, ai metodi di aratura. L'Alto Medio Evo era forse povero di inventori, ma certo, nella sua disperata povertà, con la sua cronica scarsità di manodopera, con i suoi bassissimi livelli di produttività, era ricco di occasioni favorevoli alle innovazioni.
Tra le innovazioni che contribuirono maggiormente ad aumentare il rendimento delle terre c'è la diffusione, tra il VII e il IX secolo d.C. e soprattutto nell'ambito della civiltà agricola dell'Europa centrale, del metodo di avvicendamento triennale delle colture. Per restituire fertilità al terreno il tradizionale sistema di rotazione biennale alternava sulla stessa terra un anno a grano e un anno a maggese: così, però, una metà del suolo disponibile era stabilmente improduttiva. Con la rotazione triennale, invece, il terreno improduttivo era ridotto ad un terzo, con un guadagno, in puri termini di superficie, del 30 per cento circa, ma con un aumento effettivo della produzione che era spesso anche maggiore.
Il metodo dell'avvicendamento triennale, detto anche «dei tre campi», consisteva nel far ruotare le colture su tre appezzamenti di uguale superficie: un appezzamento era lavorato e seminato in autunno con cereali invernali (frumento e segale), un altro in primavera con legumi o cereali primaverili (avena e orzo), il terzo era lasciato a maggese. L'anno successivo si praticava la semina dei grani sul secondo campo, che si era nel frattempo arricchito per il sovescio dei legumi, mentre sul terzo campo, il maggese riposato, si piantavano i legumi; il primo campo, infine, già seminato a cereali, veniva lasciato a maggese. In questo modo la stessa coltura si ripeteva su ciascun campo solamente ogni tre anni riducendo il rischio dell'esaurimento del terreno.
A reintegrare la fertilità del suolo era comunque sempre più necessaria un'adeguata concimazione. Il letame era diventato relativamente più abbondante in conseguenza del maggior peso assunto dall'allevamento nell'economia dell'Alto Medio Evo. Rispetto alle colture, infatti, l'allevamento richiedeva meno lavoro e più terra (per il pascolo) e, come sappiamo, a partire dal III secolo d.C. la prima risorsa era diventata effettivamente più scarsa, mentre la seconda, con il generale arretramento delle colture, era diventata fin troppo abbondante. L'avverbio relativamente è qui d'obbligo, giacché il letame, fino ad epoche a noi molto vicine, è sempre stato un bene scarso, o almeno largamente inferiore alle necessità.
Nei villaggi dell'Alto Medio Evo la concimazione era stata praticata in maniera intensiva negli orti contigui alle case, dove venivano sapientemente utilizzati, oltre allo sterco delle bestie, escrementi umani e rifiuti domestici di ogni genere. Sui terreni arabili, destinati cioè alla coltura del grano, la concimazione veniva praticata soprattutto facendo pascolare il bestiame sui campi tenuti a maggese. Nell'Inghilterra medievale esisteva una consuetudine che testimonia quanta importanza fosse riconosciuta al letame. Si tratta del faldagium, il diritto del signore feudale a tenere un recinto, o «falda», dove il bestiame del villaggio, che durante il giorno veniva fatto pascolare nei boschi del signore, doveva stazionare di notte: il fondo della «falda» si copriva in questo modo di un prezioso strato di letame di cui il signore si riservava l'uso.
Nell'agricoltura dell'Alto Medio Evo uno dei più importanti elementi di progresso è stato la diffusione dell'aratro pesante, a ruote: l'aratro pesante è diventato, anzi, quasi un emblema dell'espansione agricola medievale perché ha consentito la colonizzazione delle terre umide dell'Europa centro-settentrionale. Tutti gli aratri usati dalle diverse civiltà agricole si possono ricondurre a due grandi tipi: «leggero» e «pesante». Il primo tipo, più antico e più semplice, era provvisto di un corpo lavorante, il «vomere», conico o triangolare, che nei modelli più primitivi era interamente in legno; abbastanza presto nel vomere furono incastrate delle selci per diminuirne l'usura e più tardi lo si rivestì di metallo. Questo tipo di aratro (ne abbiamo già parlato) è adatto alle regioni mediterranee, dove la coltivazione ha i caratteri del dry farming. L'aratro pesante è stato invece un apporto dell'agricoltura nord-europea. Il volume di questo aratro, più grosso e tagliente, è provvisto di una specie di ala, quasi un secondo vomere, il «coltro», che taglia la terra in posizione orizzontale e di un dispositivo, il «versoio», che può sollevare e rovesciare di lato la zolla tagliata.
I vantaggi offerti da questo aratro sui terreni che si prestavano a una lavorazione profonda erano veramente notevoli. Innanzi tutto, data la sua potenza, serviva per conquistare alla coltivazione le terre umide di tipo argilloso molto compatte, che non potevano essere lavorate altrimenti. In più, il campo veniva arato in una sola volta, in lunghe strisce, mentre con l'aratro leggero, che non era in grado di sollevare le zolle, era necessario incrociare i vari percorsi di lavorazione. Infine, scavando in profondità, si assicurava un migliore nutrimento e una maggiore protezione alla semente.
Naturalmente l'aratro pesante offriva una resistenza alla trazione molto maggiore e richiedeva un tiro molto più potente di quello dell'aratro leggero, per il quale era sufficiente una coppia di buoi. La cosa costituiva effettivamente un ostacolo al suo generalizzarsi: il costo dell'apparato superava di molto le possibilità economiche della grande maggioranza delle famiglie contadine. Più o meno in contemporanea con il diffondersi dell'aratro pesante, però, anche nello sfruttamento dell'energia animale furono realizzati decisivi progressi. Tra il IX e l'XI secolo entrò in uso un nuovo sistema di attacco: al vecchio collare, che poggiava sulla trachea dell'animale e gli impediva, soffocandolo, di sviluppare per intiero la sua forza, si sostituì il collare di spalla per il cavallo e il giogo frontale per il bue. Si calcola che questa innovazione abbia aumentato di quattro o cinque volte il rendimento della trazione animale.
Tra XII e XIII secolo il cavallo, un animale più costoso del bue (mangiava, tra l'altro, più del doppio), ma anche più robusto e più veloce, cominciò ad essere utilizzato, in sostituzione di quello, come animale da lavoro. Vale la pena di aggiungere che in molte regioni la diffusione del cavallo da tiro e quella della rotazione triennale sono andate di pari passo: la rotazione triennale, infatti, aumentava sensibilmente le disponibilità di avena, di cui il cavallo si nutriva. L'impiego del cavallo in agricoltura si è poi continuamente esteso in Europa fino al secolo scorso, e cioè fino alla comparsa anche in questo settore delle macchine e delle fonti inanimate di energia (vapore).
Il cavallo è sempre stato uno strumento di guerra e la sua diffusione è un dato caratteristico di una società, come quella feudale, che era dominata da una casta di guerrieri ed era organizzata in funzione dei preminenti interessi della guerra. Ma l'onnipresenza del cavallo come arma nell'Europa medievale è stata la premessa fondamentale del suo impiego in agricoltura a fini produttivi. La cosa merita di essere sottolineata: parecchie tra le innovazioni del Medio Evo sono infatti interpretabili come estensione o ricaduta nel mondo della produzione (o comunque nell'ambito delle attività «civili») dei progressi realizzati dai signori feudali nella nobile arte di ammazzare il prossimo.
La siderurgia, ad esempio, era una tecnica di interesse eminentemente militare. Nell'agricoltura, fino ai primi secoli del Basso Medio Evo, la quasi totalità degli strumenti era in legno ed erano i contadini stessi che provvedevano a fabbricarseli nei tempi morti del lavoro nei campi. Gli strumenti in ferro erano una rarità: in età carolingia, in una grande tenuta regia nella Francia del Nord, che contava ben cinque mulini e una birreria e nella quale venivano allevati oltre duecento bovini, per i lavori agricoli erano disponibili in tutto sei attrezzi in ferro: due falci, due falcetti e due vanghe. Più frequenti erano gli utensili metallici per la cucina e per il fuoco (alari, paioli), per il taglio degli alberi o la lavorazione del legno (scuri, roncole, ecc.), ma si trattava pur sempre di oggetti semipreziosi, che venivano annotati con cura minuziosa negli inventari delle grandi aziende (mentre di quelli in legno non si faceva alcun conto).
A partire dal XII o dal XIII secolo d.C. il ferro cominciò a diffondersi nelle campagne europee per la fabbricazione di attrezzi o di parti di attrezzi, e anche se dovevano trascorrere molti secoli prima che questo suo impiego diventasse abituale, si trattò di un'innovazione importante, che contribuì non poco ad accrescere la produttività del lavoro agricolo. La condizione perché questa innovazione potesse essere introdotta fu costituita, ancora una volta, dalla diffusione di laboratori e fucine per la lavorazione di armi, corazze, maglie di ferro, che era resa necessaria dalla dispersione geografica delle corti feudali. Come quello del cavallo, anche l'uso del ferro in agricoltura è stato un sottoprodotto della guerra e della sua presenza endemica nell'Europa medievale.

IL MULINO

Quando nel mondo mediterraneo, qualche secolo prima di Cristo, vennero adottate per la macinazione dei grani le macine ruotanti, la mola superiore veniva fatta girare da due o più schiavi, oppure, nei mulini di maggiori dimensioni, da asini o cavalli. Non passò molto tempo dall'adozione della macina girevole che si trovò il modo di applicare a questo semplice movimento una forma di energia inanimata quella dell'acqua corrente, mediante un motore altrettanto semplice, la ruota a pale: l'acqua scorrendo in basso o cadendo dall'alto trascinava le pale o i cassetti inseriti sulla corona della ruota e imprimeva alla ruota stessa un moto di rotazione che, mediante appositi organi, veniva trasmesso alla macina.
Il più antico ed elementare mulino ad acqua aveva una ruota orizzontale che azionava direttamente la macina per mezzo di un asse o albero. Questo tipo di mulino aveva limitate possibilità di utilizzazione perché la mola girava con la stessa velocità della ruota, e cioè troppo lentamente. Già nel I secolo a.C., però, gli ingegneri romani costruirono un tipo di mulino più complesso e più efficiente. La ruota motrice era sistemata verticalmente ed azionava la macina per mezzo di un ingranaggio. Questo ingranaggio era necessario per trasferire il movimento dal piano verticale della ruota a quello orizzontale della macina, ma serviva anche a moltiplicarne la velocità. La mola poteva ora girare con una velocità anche cinque volte superiore a quella della ruota ed era in grado di compiere una quantità di lavoro molto maggiore.
Con l'invenzione del mulino ad acqua era stato compiuto un passo decisivo sulla strada dell'utilizzazione delle fonti inanimate di energia. La sua diffusione fu però molto lenta. Nelle stesse province mediterranee dell'impero romano dove la ruota idraulica era nata, la maggior parte dei mulini da grano continuò per molto tempo ad essere azionata a forza di braccia o con l'ausilio di animali. In Gallia esistevano dei mulini ad acqua nel III secolo d.C. ma erano considerati impianti del tutto eccezionali. Ci volle qualche secolo perché se ne costruissero nella Germania meridionale. Nell'Europa del Nord giunsero molto più tardi, in pieno Medio Evo: nel IX secolo in Inghilterra, addirittura nel XII nelle regioni del Baltico.
Parecchi ostacoli ritardarono la diffusione del mulino idraulico. Le gelate, le piene, le fasi di secca dei fiumi costringevano i mulini all'inattività, con gravi conseguenze per le popolazioni la cui vita dipendeva dal regolare rifornimento di farine. In caso di guerra, poi, gli impianti erano facilmente esposti alla distruzione da parte dei nemici. Le vecchie mole a mano e le macine azionate da animali erano molto meno potenti dei mulini idraulici, ma presentavano il vantaggio di garantire la continuità della produzione anche in situazioni di emergenza.
Il costo di costruzione e di manutenzione dei mulini ad acqua era inoltre piuttosto alto e la loro utilizzazione diventava conveniente solo quando c'erano grandi quantità di grano da macinare. Proprio per questo, almeno in Europa, erano soprattutto i signori feudali che avevano la possibilità e l'interesse di costruire mulini ad acqua. Oltre a farvi macinare il proprio grano, potevano costringere i contadini dipendenti a portarvi il loro ed esigere un pagamento per il servizio. Ma i contadini, per sottrarsi a questa costosa imposizione, continuarono per secoli a macinare di nascosto il proprio grano ricorrendo a piccole mole a mano o addirittura agli arcaici mortai con pestello.
Ad ogni modo, una volta affermatasi, la ruota idraulica rese grandi servigi: con il mulino a vento che le si affiancò in molte parti del mondo, restò sino all'invenzione della macchina a vapore il motore più efficiente e più diffuso. Occorrevano dieci uomini per fare il lavoro di un cavallo; ma una ruota idraulica poteva fare il lavoro di dieci cavalli. Oltre che ai mulini da grano, la ruota idraulica poteva fornire energia ai frantoi da olive, alle segherie, ai magli e alle soffiere delle ferriere, agli argani ed alle pompe delle miniere, insomma a tutti i principali apparati meccanici allora in uso.
Via via che si moltiplicarono le applicazioni della ruota idraulica, le più importanti attività industriali vennero concentrandosi lungo i corsi d'acqua. Anche le città si svilupparono di preferenza in prossimità di fiumi o di torrenti che potevano fornire, anche mediante opportuni sistemi di canali e condutture, l'energia necessaria al funzionamento degli impianti industriali. Oggi è raro trovare ruote idrauliche ancora in funzione. Ma sino al secolo scorso non c'era villaggio che non avesse il suo mulino e la sua ruota. Si calcola che due secoli fa, alla vigilia della Rivoluzione Industriale e dell'avvento della macchina a vapore, soltanto in Europa funzionassero più di mezzo milione di ruote idrauliche, una ogni 300 abitanti.
Ricostruzione virtuale di un mulino a vento medievale